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Vallaro Michele
Parliamo Arabo
Profilo (dal vero) di uno spauracchio linguistico
Magnanelli
Pag. 64 Formato: 11,5 x 17 cm. Anno: 1997 ISBN: 978-88-8156-063-1
€. 6.00
Mentre l'arabo fa ormai la sua comparsa nella vita di tutti i giorni, rimangono presso il grande pubblico curiosi pregiudizi linguistici, compendiabili nella famosa frase: "Ma parlo arabo?". Questo libretto vuol essere un primo ed elementarissimo aiuto a superare infondate diffidenze nei confronti d'una lingua che non è in realtà più difficile di tante altre, e che anzi, sotto certi punti di vista, ha con l'italiano parecchi punti di contatto.
Estratto dal libro:
Ma parli arabo?”. “Non parlo mica arabo!”. “Per me è arabo!”. Chi non ha pronunciato queste parole almeno una volta nella vita scagli la prima pietra. A quanto pare, i nati fra le Alpi e Pantellerìa vedono la lingua dei dirimpettai del Mediterraneo come il culmine dei babau linguistici, l’inequivocabile modello dell’impenetrabilità, il monumento parlato della difficoltà. Quando (per esempio in treno, in aereo, a una cena) s’attacca discorso con una persona sconosciuta, arriva fatalmente il momento in cui ci si sente domandare “Lei di che cosa si occupa?”; rispondere, come càpita all’autore di queste righe, “Di lingua e letteratura araba”, mette generalmente in moto nell’interlocutore una curiosa reazione psicologica: da una parte una sorta di stupore fra il commiserevole e l’invidioso (“Incredibile! c’è chi ha tempo da perdere con queste cose!”), dall’altra un abbozzo di quell’infantile ammirazione che si prova per chi scala le vette a mani nude o attraversa il Pacifico in zattera.
Se l’interlocutore è ben educato, è a questa seconda sensazione che concede d’esprimersi, e ne risulta una frase tipo: “Complimenti! Bisogna avere una grande mente per dedicarsi a una cosa così difficile!”. A questo punto, se l’interlocutore, oltre a essere una persona ben educata, è anche una bella signora, l’arabista deve aggrapparsi con tutte le forze alla realtà per non uscirsene in battute quali: “E questo è niente! Dovrebbe vedermi quando suono con una mano sola il Clavicembalo ben temperato o eseguo il mio famoso tuffo con doppio salto mortale!”.
Aggrapparsi alla realtà. E appunto, qual è la realtà della lingua araba? è veramente così difficile? Sembra che il più grande arabista del perìodo della Restaurazione, il famoso Antoine Isaac Silvestre de Sacy, usasse dire: “L’arabo? Ma non lo s’impara mai: lo si studia!”. Molto più recentemente, uno dei maggiori studiosi moderni di linguistica araba, il Padre gesuita Henri Fleisch, scrive:
Con «arabo» intendiamo, qui, la lingua che gli stessi arabi hanno riconosciuto come il loro linguaggio autentico: la ‘arabiyya […]. Questa ‘arabiyya è una lingua difficile. Una delle principali difficoltà, se non la principale, consiste precisamente nel fatto che essa è costruita secondo un tipo linguistico particolare, completamente differente da quello delle lingue europee.
Sembra che queste due citazioni siano fatte apposta per solleticare la vanità dell’arabista e nel contempo scoraggiare tutti coloro che, non ostante tutto, l’arabo vorrebbero, se non impararlo, almeno guardarlo un po’ più da vicino. Ma le cose stanno veramente così? Non sarebbe il caso di cercare di definire meglio che cosa s’intenda con «difficoltà» dell’arabo, per vedere se si possa sgonfiare un po’ l’occasionale spocchia dell’arabista e insieme rinfrancare i profani nel loro desiderio di esser meno profani?
Cominciamo col domandarci se, in che senso e quanto sia lecito parlare di «difficoltà» d’una lingua in genere. Sembra innanzi tutto accertato che non esistano lingue intrinsecamente difficili, o più difficili di altre: come risulta infatti da studii di psicolinguistica sull’argomento, i bambini acquisiscono la lingua madre più o meno nello stesso tempo, indipendentemente dalle lingue. è consolante trovare una conferma scientifica a una vecchia battuta un po’ scema su un turista che si stupiva che i bambini russi conoscessero il russo così bene. Delinea nettamente la questione il linguista Stephen Pit Corder, affermando che «la difficoltà è una funzione delle relazioni fra le lingue, non qualcosa di intrinseco ad una lingua». Vale a dire che si può parlare di difficoltà soltanto in riferimento all’apprendimento d’una seconda (o terza, ecc.) lingua, non in riferimento all’acquisizione della lingua madre.
Una volta ammesso che la difficoltà è una funzione delle relazioni fra le lingue, si potrebbe a tutta prima presupporre che la difficoltà equivalga alla differenza: quanto più una lingua è «diversa» dalla lingua madre, tanto più difficile ne sarebbe l’apprendimento. Sembra però che le cose non siano così semplici: non è innanzi tutto troppo corretto, da un punto di vista teorico, confondere una questione strettamente linguistica come la differenza fra lingue e un fenomeno psicolinguistico come la difficoltà che lo studente prova nell’apprendimento; né, all’interno della dimensione psicolinguistica, bisogna dimenticare che l’apprendimento d’una lingua comprende l’aspetto della «produzione» degli enunciati linguistici (l’aspetto «attivo» della conoscenza linguistica), e quello della «ricezione» (l’aspetto «passivo»), aspetti che provengono da processi psicologici differenti, e che possono comportare livelli di difficoltà anche parecchio diversi.
Molteplici esperienze, inoltre, hanno dimostrato che non è affatto automatico che ciò ch’è diverso sia per forza difficile, così come d’altra parte non tutto ciò ch’è somigliante è sempre facile da apprendere. Anzi: spesso le somiglianze (che, è bene anticipare, nelle lingue sono sempre più o meno parziali) sono trabocchetti più insidiosi delle differenze, come per esempio dimostrano i sollazzevoli strafalcioni dei turisti italiani nei paesi di lingua spagnola quando cercano di capire o di parlare quella lingua che, notoriamente, «è quasi uguale all’italiano». Notevolissime somiglianze con l’italiano, come si sa, le ha anche il romeno, tanto che il grande glottologo Giuliano Bonfante ebbe a dire che «il romeno e l’italiano sono due sorelle gemelle»; eppure basta quell’apparentemente piccolo particolare dell’articolo definito che si pospone al nome in modo inseparabile (in romeno «l’uomo» si dice omul, cioè «uomo-il») per dare origine a non piccole differenze fra le due lingue riguardo, per esempio, ai complessi nome-aggettivo attributo o ( in alcuni casi) nome-aggettivo possessivo, e procurare di conseguenza qualche difficoltà a chi, pur di madre lingua italiana, abbia studiato il romeno ma non abbia ancora una sufficiente pratica di conversazione.
Una volta stabiliti questi limiti, tuttavìa, si può tranquillamente riconoscere che, di fatto, una lingua con più tratti comuni alla lingua madre è più facile da imparare di una lingua con pochi tratti comuni ad essa; si potrebbe anche aggiungere, come elemento di difficoltà operante all’interno del fattore «differenza», che una lingua è tanto più difficile da apprendere quanto più le variazioni morfologiche seguono criterii diversi da quelli della lingua madre, e quanto meno tali variazioni sono riconducibili a modelli prevedibili. In certe lingue caucasiche, per esempio, i nomi sono divisi in diverse classi morfologiche, che comportano fenomeni di accordo con gli altri elementi della frase, senza che vi sìano ragioni «logiche» per l’appartenenza d’un nome a una classe piuttosto che a un’altra; in questi casi soltanto la pratica potrà venire in aiuto di chi apprende. Pensiamo anche, noi parlanti dell’italiano, alla fatica che fanno gli stranieri - e forse non solo gli stranieri - a memorizzare i passati remoti di certi verbi («cossi, c(u)ocesti», «diedi, desti», «feci, facesti»): nemmeno sapere il latino aiuta molto, dal momento che, da «trasferire», non si dice «trastuli» ma «trasferii», e, da «cadere», non si dice «cecidi» ma «caddi». Per fortuna il passato remoto si usa sempre meno!
Si potrebbe a questo punto pensare che, accettato (sia pure con le limitazioni or ora accennate) il principio che la maggior parte delle difficoltà d’apprendimento sia provocata dalla diversità fra le lingue, sia lecito stilare una sorta di classifica delle lingue che, in base alla loro diversità dall’italiano, stabilisca quali sìano più o meno difficili per il parlante dell’italiano. Sarebbe un errore. Le lingue sono sistemi complessi costituiti da sistemi di livello inferiore, a loro volta composti di sistemi più limitati: com’è stato ormai ampiamente dimostrato, una classificazione delle lingue in base alla loro struttura (ovvero, come si dice, una «tipologìa linguistica») potrà elaborarsi tenendo conto non delle lingue nel loro complesso, ma soltanto esaminando i singoli sistemi parziali (per esempio il sistema fonologico, il sistema della determinazione dei nomi all’interno del sistema sintattico, eccetera). Scrive il grande linguista francese André Martinet:
Un giorno può darsi che i linguisti ripropongano il problema di trovare un’unica scala per caratterizzare una lingua nel suo insieme. Ma noi dobbiamo accontentarci di trattamenti separati. Come ha affermato in proposito Charles Bazell, «la classificazione strutturale deve partire da piccoli sistemi e non dalle lingue nel loro insieme, dato che il postulato della solidarietà resta da provare». Dal momento che, quindi, non è possibile paragonare fra loro le lingue nel loro insieme, anche le differenze e le somiglianze fra loro si potranno stabilire unicamente esaminando volta per volta questi «piccoli sistemi».
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