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In questa sezione trovate migliaia di testi selezionati e continuamente aggiornati. Nella colonna centrale sono (Continua...)

DISPONIBILITÀ IMMEDIATA
Christian Fleche
Decodifica Biologica delle Malattie
Manuale pratico delle corrispondenze fra organi ed emozioni
Amrita
Pag. 280
Formato: 14 x 20,5 cm.
Anno: 2010
ISBN: 978-88-89382-54-7


€. 17.00 €. 16.15 (-5%)

  

E se il miglior “corpo medico” fosse il nostro? In sé, esso possiede infatti tutto quello che serve: l’origine delle malattie, il loro significato, ciò che le mantiene, ciò che le cura e la prevenzione di quelle che ancora non sono comparse!!

Christian Flèche spiega come l’“entrare in malattia”, il sintomo, sia la reazione di adattamento ad un evento non concluso, che resta come cristallizzato nel tempo. Il sintomo ne indica precisamente l’origine, sicché va visto come un amico e non come un nemico.

Questo volume viene presentato al pubblico italiano in seguito al successo di Ho un corpo per guarirmi, in cui Christian Flèche presentava la sua visione innovativa della salute in base al “sentire” biologico. Le malattie sono presentate per apparato e ne viene spiegato il senso biologico. Il libro che avete in mano, ricco di esempi, è dedicato tanto ai terapeuti quanto a chiunque desideri occuparsi della propria salute, per decodificarne i sintomi e liberarne il senso, così da curare le cause e non solo gli effetti. Con questo metodo, il senso nascosto dei nostri disturbi emerge a livello cosciente, diventa condivisibile e curabile, e quindi cessa di doversi manifestare come “fato” o “destino”, “incidente”, “malattia” o “sintomo”…

CAPITOLO I
Princìpi generali

Per quanto si osservino le malattie da un punto di vista biologico e con un tipo di ascolto improntato alla biologia, si nota che tutte incominciano con uno shock, un evento collocabile nel tempo e nello spazio: L’evento (*) penetra in campo biologico quando non viene gestito dal soggetto che, a questo punto, ne diventa oggetto: sarà allora oggetto “della malasorte”, “del destino”, “degli eventi”, “degli altri” e così via. Per esempio: vedo che mia figlia viene presa a sberle ai giardini pubblici. In un istante questa cosa mi turba, passa attraverso i sensi, entra in contatto con la mia storia personale la quale dà un senso, un significato interpretativo all’evento, significato che diventa sensazione: «È una porcheria! Non è giusto! È uno schifo! È umiliante! È inconcepibile! Che tristezza!», eccetera.

E se non trovo subito una soluzione soddisfacente, se questa emozione rimane inespressa, quel sentire si trasforma in un sentire biologico: «Mi sta sullo stomaco = problemi di stomaco; mi toglie il fiato = problemi al polmone; mi demolisce = problemi alle ossa; mi repelle = problemi al colon; sono annientato = problemi al rene», e così via. L’evento, insomma, diventa significato, e da significato sensazione; penetra attraverso i cinque sensi, poi tenta di uscirne, ma se è impossibile esprimerlo esso penetra nell’inconscio, e da qui nell’ambito biologico: mente, cervello, corpo, energia. Ognuno di questi elementi ci informa sugli altri tre. Se prendiamo il polso in base alla medicina cinese, scopriamo il livello energetico di ciascun organo; giacché ogni cellula del corpo è collegata a un gruppo di neuroni cerebrali, a loro volta collegati a una funzione biologica, anche l’osservazione del cervello ci permette di capire di quale tipo di sentire doloroso e inespresso si tratta, e di sapere quale organo è stato colpito. E soprattutto, ogni tipo di malattia, e quindi le cellule che vengono colpite, ci informa sul sentire che occorrerà esprimere, liberare, se vogliamo guarire.

Altrimenti rimarremo in uno stato di stress inconscio nei confronti dell’evento scioccante, e questo magari per anni, il che “sequestrerà” una parte di noi, della nostra energia. Come scriveva Carl Gustav Jung: «Tutto ciò che non risale alla coscienza farà ritorno sotto forma di destino», di sintomo, di malattia, di incidente, di fallimento, di disagio… e viceversa: tutto ciò che risale alla coscienza non farà più ritorno sotto forma di destino, fatalità o malattia!

«Tanti anni fa, – mi raccontò un giorno un uomo, – andai ad assistere a una conferenza con mia moglie. Finita la conferenza ritornammo alla nostra auto, ma al suo posto trovammo… un bel mucchio di ceneri ancora calde e fumanti. L’auto aveva preso fuoco, e ancora si sentiva il crepitio di certi materiali, addirittura c’erano parti rosse, molli che continuavano a fondersi, il tutto avvolto in un puzzo acre, che sapeva di copertone bruciato e di benzina. Altri pezzi erano già tiepidi e potevamo toccarli, ma il tutto non assomigliava più affatto a quella che, un tempo, era stata un’auto.
Ci allontanammo a piedi, e dopo pochi passi sentii qualcosa. Mi fermai e mi chiesi: “Cosa sta succedendo? C’è qualcosa… qui, dentro di me, sento qualcosa… qualcosa di troppo, di indefinibile”. Non mi era mai capitato prima. Allora mi voltai verso mia moglie con aria interrogativa: “Non senti anche tu qualcosa?”.
“No, – mi rispose, – io non sento niente. Proprio niente. Semmai un vuoto, un vuoto che mi fa star male, come un buco nero”. Le dissi che cosa provavo io: “Sento qualcosa, è come una cosa grossa, una cosa grossa e negativa, come un… boccone di troppo…”.

E lei: “Per me, invece, è come se mi mancasse qualcosa di positivo. C’è qualcosa che mi manca. Come l’assenza di qualcosa che ho perso”. Perplesso, o forse solo curioso, mi chiesi: “Da dove viene questo qualcosa di troppo che sento in me? Quand’è che è incominciato? Che strano! Lì, a due passi dall’auto, non sentivo niente, ed ecco che al terzo passo mi sono ritrovato con qualcosa! E poi, cos’è questo qualcosa? Una specie di emozione sgradevole, come se avessi un mattone sullo stomaco…”. Allora feci un passo indietro, così da “ringiovanire” di un secondo lungo la linea del tempo: ecco che non sentivo più niente. Feci un altro passo indietro per ringiovanire di un altro secondo, e anche qui, niente. Ringiovanii di un terzo secondo, e qui rividi l’incendio: due soli passi di distanza. Presi dunque la decisione di esplorare che cos’era accaduto in quei due passi. Quando c’è una grossa emozione tutto accade come se qualcosa penetrasse dentro. Avevo visto una cosa rossa e gialla che bruciava, e avevo sentito quell’odore speciale. Ed era stato a quel punto che, in un lampo, una scena mi era balenata nella mente, attraversandomi come una freccia. All’improvviso, avevo visto il mio primo “qualcosa di troppo” negativo: mio padre che mi si buttava addosso, dopo aver bruciato i miei giocattoli.

Io ero piccolissimo, e lui cercava di uccidermi soffocandomi con un cuscino. Feci un altro passo. E quello che mi tornò in mente, fu che “quando c’è fuoco, io sono in pericolo”. Quando c’è qualcosa di imprevisto, io sono in pericolo. Ero in un grande stato di stress, mi sentivo male. “E tu cos’hai?”, chiesi a mia moglie. “Non ho niente, ed è terribile questo non avere. Prima c’era qualcosa, e adesso, non c’è più niente”. Facendo a questo punto un passo indietro anche lei, e ringiovanendo a sua volta di un secondo, notò che erano comparsi dei pensieri. Ringiovanì di un ulteriore secondo, ed ecco un’immagine. Un altro secondo ancora indietro nel tempo, ed ecco un rumore strano, un crepitìo. Io avevo visto delle cose; lei, le aveva udite. Aveva udito quel crepitìo, seguito da un grande silenzio. E quello che le aveva suscitato dentro era il ricordo di suo padre. Nel ricordo lei aveva ventun anni, si trovava con lui in casa. E suo padre all’improvviso era caduto. Non si sarebbe alzato mai più, ucciso da un infarto. Ecco il vuoto. Quell’uomo, oltretutto, faceva il meccanico…

All’improvviso, il silenzio, e la convinzione che l’accompagnava: “Non appena c’è silenzio, è un disastro, un abbandono, un vuoto”. A quel punto, anni più tardi, mia moglie provava quel vuoto. In lei come in me, nel buco nero creato da quella grande emozione, qualcosa si era infilato, penetrando a nostra insaputa: un ricordo, una convinzione, un’emozione. Che fare, allora, di questa emozione che ora se ne stava qui, come un qualcosa di troppo dentro di me, e come un vuoto dentro di lei? Le chiesi: “Lo vuoi, questo mio qualcosa di troppo, per riempire il tuo vuoto?”, e lei, a sua volta: “E tu, vuoi riempire il mio vuoto con quel tuo qualcosa di troppo?” E qui accade ciò che doveva accadere: un… “figlio”. Allora lei disse: “Questo non è un niente, eh?”. “Sì, ma non è comunque il tutto – le risposi. – Come lo chiameremo? Magari Erode (che provoca erosione) o, se sarà una bambina, Livia (lì, via)… Insomma, un segno meno…” “Ah, no, per me è qualcosa. Perché non Odoacre (un odore acre)? Bisogna pur che ci sia qualcosa…”. Così, alla fin fine, io decisi di chiamare quel “figlio” Ulcera, e lei Cancro. Perché? Perché io avevo un “troppo” di segno negativo e la mia soluzione, l’istante successivo, era stata un’erosione, un buco, perlomeno dentro di me, dal momento che quel qualcosa di troppo era diventato insopportabile. Allora mi ero creato un’ulcera. Quanto a lei, desiderava riempire quel suo “vuoto di positivo”, e così aveva prodotto un cancro; avrebbe anche potuto produrre un tumore benigno, o dei polipi». Abbiamo, qui, un evento: un tale vede qualcosa che brucia. Ciò gli suscita un’associazione inconscia, e siccome la natura ha orrore del vuoto, essa penetra dentro.

Se vi dicessi “automobile”, inconsciamente ognuno di voi vedrebbe, udrebbe o rievocherebbe la propria auto. Nessuno di voi vedrebbe l’auto del vicino. Se io vi parlassi di mio padre, inconsciamente voi fareste riferimento al vostro. Basta che io dica “padre” perché non vediate certamente vostro zio. Oppure, se per esempio vi chiedessi di non pensare a una giraffa, di evitare assolutamente di pensare a una giraffa… ecco che ci pensereste subito. Abbiamo tutti bisogno di dare un senso, un significato, a quel qualcosa di insensato davanti al quale ci troviamo: la mia auto ha preso fuoco su un parcheggio, durante una conferenza. Dovrò necessariamente dare un senso all’evento, ossia dovrò associare quell’evento a un significato. I miei cinque sensi lo percepiscono, e io vado in cerca di un altro significato, del “senso giusto”, ossia della giusta direzione. È quella che si chiama “credenza” o convinzione. Nel caso del nostro esempio, essa sarà che “appena c’è il fuoco, io sono in pericolo”. E a questo punto, sarà “troppo”. Appena l’auto prende fuoco io sono in pericolo, perché qualcuno deve pur aver appiccato quel fuoco, che può farmi del male. Questo sarà il senso che darò all’evento.

Questo senso o significato aggiunto, quest’emozione, questo “qualcosa di troppo”, lo potrò vivere solo nella mia realtà biologica: lo vivrò nelle gambe, nelle braccia, nella testa, nei polmoni, nei gangli, nelle ossa, nei reni, e così via. L’emozione mi sommerge: che ne faccio? L’emozione si traduce dunque nella mia realtà biologica. Ora, in questa mia realtà biologica, non c’è una nessuna Peugeot 205 blu che prende fuoco. Esiste però un “sentire” questo evento come “una vera “schifezza”, “qualcosa che non posso mandare giù”, oppure un “sentire” diverso, che sa di collera, di svilimento… E un secondo dopo questo corrisponderà a un organo. Se fossi un uccello, la mia realtà biologica sarebbe volare; se fossi un pesce, certo non avrei la stessa realtà biologica dell’uccello, ed essa non troverebbe alcuna rispondenza nella “cultura” della mia specie. Il senso, il significato, si incarna nella nostra realtà biologica. Quell’evento inatteso, in quel preciso istante, potrò viverlo, ad esempio, con paura: paura di morire, perché subito mi rimanda a un’altra realtà ancorata nella mia memoria cellulare, la realtà di qualcuno che voleva uccidermi. E la parte del corpo che corrisponde biologicamente alla paura della morte non sarà certo un ginocchio, né un piede, né gli occhi, bensì gli alveoli polmonari: farci vivere è la loro funzione biologica, sono loro a trasformare l’aria, a far entrare l’ossigeno nel sangue.

Così, se avrò paura di morire (paura dell’ultimo respiro) bisognerà che incameri più ossigeno, e la mia soluzione sarà produrre più alveoli, per afferrare più ossigeno, e quindi sopravvivere. Si tratta, insomma, di un conflitto arcaico. Lo stesso evento potrebbe essere vissuto in un’altra chiave, per esempio come qualcosa di indigesto; se proprio non riesco a digerire che qualcuno abbia dato fuoco alla mia auto, questo si tradurrà nella mia realtà biologica in modo diverso dal caso di prima. Si codificherà nel cervello in modo che i miei neuroni diano ordine allo stomaco di produrre acido cloridrico in abbondanza, per digerire quella cosa indigesta. Il mio sentire si incarnerà nel corpo per esprimere, su un piano biologico, una soluzione. La moglie del protagonista del nostro esempio, in quel preciso momento, sente invece un’assenza, una carenza, un vuoto: le pare d’essere separata da qualcosa, come se fosse stato reciso un contatto.

Nel suo caso, se si tratterà di un conflitto da separazione, sarà interessata la pelle, l’organo che ci permette di essere in contato con il mondo esterno; se invece vivrà l’evento in chiave di perdita, questo suo sentire rimanderà il tutto all’organo che corrisponde al conflitto da perdita, ossia alle ovaie (se fosse un uomo: nei testicoli), l’unico organo che ha in sé la soluzione dei conflitti dovuti a perdite biologiche perché permette di continuare la specie. Il sentire, dunque, si traduce sul piano della biologia, esprimendo così la migliore soluzione di adattamento di fronte a un evento brutale e inatteso. Nella realtà, quando un animale inghiotte un osso (cosa che per lui rappresenta un pericolo biologico), avrà sentirà biologico l’evento come indigesto, e la soluzione biologica sarà produrre più acido cloridrico. Ecco da dove traiamo l’archetipo. Se è invece avrà inghiottito un pezzo di carne avariata, la sentirà come “qualcosa di disgustoso, di schifoso”, che bisognerà evacuare.

La soluzione biologica di sopravvivenza sarà allora un tumore al colon, per secernere altro muco allo scopo di far scivolare quella cosa verso l’esterno. Se la situazione biologica stressante è quella di essere aggredito dal sole, la soluzione di troverà sul piano del derma: secernere più melanina. E allora ecco l’abbronzatura, la cui funzione è proteggerci da quell’aggressione solare. Se mi trovo in una situazione di urgenza, dove il sentire biologico è che occorre fare davvero in fretta, questo toccherà una zona precisa del cervello che darà ordine alla tiroide di secernere più tiroxina, un ormone che accelera il metabolismo, il che mi darà più possibilità di uscire dal conflitto da lentezza.
 
Reale o virtuale? Un vecchio cervo regna sul proprio territorio e su una sua schiera di femmine che feconda ogni anno. Un bel giorno, in autunno, ecco arrivare un giovane rivale; i due maschi combattono, e la realtà biologica del vecchio cervo, essendo programmato per continuare la specie, è il rischio di perdere il territorio biologico di sopravvivenza genetica. Per ottimizzare le sue possibilità di sopravvivenza e tenersi il territorio riproduttivo, esso scaverà le arterie coronarie, le ulcererà affinché vi scorra più sangue, per irrorare di più il suo cuore. Così avrà a più rapidamente disposizione una maggior quantità di ossigeno, si sbarazzerà di tutte le scorie e potrà inviare più sangue ai muscoli che riceveranno anche più ossigeno e più zuccheri. Il vecchio cervo avrà dunque più energia per combattere e cercare di tenersi il territorio.

Vi sono, insomma, delle situazioni di riferimento arcaiche, biologiche: si tratta degli archetipi. Un uomo viene a consultarmi: presenta problemi alle arterie coronarie. Non aveva alcun problema con il suo harem, nessun è venuto a lanciare bramiti per sfidarlo in duello e sottrargli la moglie… Ha però un territorio, o qualcosa che egli considera tale: il suo negozietto. Suo figlio ha deciso di occuparsene e un giorno, mentre sta passando un ordine ai fornitori, gli dice: «Non hai proprio niente da ordinare; qui, non sei più a casa tua». Il padre da un lato è contento che sia il figlio a prendere il suo posto, ma all’improvviso si trova davanti a questa realtà: sta perdendo il suo territorio.

Però non può dire proprio niente, e dunque non c’è soluzione. Il suo sentire, in quell’istante preciso, è che sta perdendo il territorio; ecco allora che stimola una zona del cervello (corteccia temporale destra, nella zona perinsulare) che darà l’ordine alle coronarie di allargarsi, di scavarsi. È una cosa stupida, perché questo ovviamente non gli servirà a recuperare il suo negozio, ma intanto l’ordine è partito. È un po’ come scoccare una freccia: una volta lanciata, non la si può più fermare. A un dato momento, ecco che c’è un “sentire”: l’ordine parte, e le arterie coronarie vengono sollecitate: questa è una soluzione biologica di adattamento che si programma nell’uomo, la stessa che, per milioni di anni, ha rappresentato una soluzione di sopravvivenza, avendoci permesso di adattarci alla realtà.
 
Nel nostro caso, però, il nostro uomo è in un ambito virtuale; solo che il suo cervello non lo sa. Il cervello non sa fare la differenza fra reale e immaginario. Un giorno mi trovavo a casa di amici per un cocktail divertentissimo. Mi hanno servito un aperitivo a base di succo di limone con un cucchiaino di mostarda forte. Ora, se vi dicessi che ho preparato anche per voi lo stesso aperitivo, qualcuno incomincerebbe a fare una smorfia: perché? È aspro e piccante? Ma non avete niente in bocca! Siamo pienamente in una dimensione virtuale, e già vi fa schifo! Per quel negoziante, è la stessa cosa: all’improvviso la psiche, il cervello e il corpo sono sotto shock. All’improvviso emerge un ricordo, un’associazione con qualcosa di drammatico; e l’istante successivo ecco che comprare una convinzione, una credenza, secondo la quale “senza territorio, la vita non ha senso”. Il suo sentire è: perdo il mio territorio; c’è un vuoto, non ho più niente. Poi, ecco la soluzione biologica di sopravvivenza: si scava le arterie coronarie, fa affluire del sangue.

Nel frattempo, se il nostro amico finisce per risolvere il proprio conflitto e, nel giro di qualche mese, dice a se stesso: «Dopotutto, che meraviglia! Chi se ne frega di quel negozio!», se lascia perdere, insomma, può cominciare a ricolmare le coronarie. Ciò avviene perché non ha più nessun conflitto con il “giovane cervo”; guarisce anche la corteccia temporale destra. Un po’ di colesterolo gli darà una mano: è materiale da ricostruzione, che permette di riparare il corpo. Che cos’è che la malattia intende guarire? Jung diceva che non siamo qui per guarire dalle nostra malattie, ma che la malattia è qui per guarire noi. Un giorno viene da me una signora con un tumore al seno sinistro. Cerchiamo insieme l’evento più forte, più drammatico, vissuto in isolamento senza che ne abbia potuto parlare. Quando si dice una cosa, quella cosa viene espressa.

Se non è espressa è… impressa. Dal punto di vista biologico, ciò che non è espresso si imprime. Il primo seno che una donna destrimane porge al suo piccolo, è il seno sinistro. Il bambino terrà dunque l’orecchio destro contro il cuore materno, ne sentirà il ritmo e questo lo tranquillizzerà. Ma qual è il senso biologico del seno? Il seno è l’unico organo che non serve alla sua proprietaria ma a qualcun altro. Una donna a cui vengono asportati i due seni può continuare a vivere; il seno è per l’altro. Un problema al seno è dunque necessariamente un problema legato all’altro. Il seno serve a fabbricare il latte, ad alimentare l’altro, a dare qualcosa di sé. Le spiego così che in quel sentire ci deve essere un altro, magari un figlio, o qualcuno per il quale prova un sentimento materno, e che è stato in pericolo. Procediamo a ritroso nel tempo, la signora “ringiovanisce” e, all’improvviso, si affloscia: ha trovato! Racconta: era alla festa del paese con il suo nipotino che si era messo a correre per salire sul treno fantasma: il bambino era caduto con le mani sulla rotaia proprio nel momento in cui arrivava il treno… Per un istante la donna se l’era visto con le mani mozzate, si era vista tutti i problemi che il piccolo avrebbe avuto con un handicap del genere, la disperazione di sua figlia… Aveva visto mille cose insieme in un istante, e già si era sentita colpevole. Era una cosa inconcepibile! Avrebbe voluto fare qualcosa, dare qualcosa di sé, ma non c’era niente da fare.

Eccola lì, bloccata in un tentativo materno di protezione impossibile. Mi racconta per una buona mezz’ora che cosa era accaduto nella sua mente nello spazio di un paio di secondi. In realtà, al bambino non era capitato niente: aveva le maniche lunghe, ed erano quelle che si erano trovate sulla rotaia, non le mani. La nonna, però, non se n’era accorta. Il piccolo ne era uscito indenne, a parte una sbucciatura alle ginocchia. In quel momento, però, la nonna era stata penetrata da un’emozione vivissima: la freccia era stata scoccata. In seguito, a livello razionale, aveva constatato che al piccolo era andata bene, che era sano e salvo, ma l’importante non era stato questa constatazione razionale, concettuale, bensì il modo in cui lei aveva vissuto l’evento, quello che aveva sentito dentro, quello che era accaduto “visceralmente”. L’incidente avrebbe anche potuto ricapitare, e questa volta per davvero. La donna aveva cominciato ad avere degli incubi, a rivivere tutte quelle eventualità emozionali e virtuali. Dunque, dal punto di vista razionale era tranquilla, contenta: non c’erano stati problemi; ma dal punto di vista viscerale non viveva più: era come se il tempo si fosse cristallizzato, congelandosi in quell’istante. Quando gli scienziati praticano dei carotaggi nella banchisa polare, trovano, prigionieri del ghiaccio, polveri e gas che risalgono alla preistoria…

Analogamente, nei nostri strati profondi la storia della persona è tutta copresente; tutto rimane. Per questa signora, era bastato, qualche anno dopo, vedere qualcosa in televisione: un bambino che aveva un problema, che era caduto o che era stato investito, chissà, perché questo scatenasse qualcosa in lei, risvegliando il… sintomo di adattamento. Un’altra persona che non abbia vissuto lo stesso dramma, pur vedendo la stessa immagine alla televisione non la vivrà allo stesso modo, perché non sarà stata programmata in quel senso.
 
La signora del nostro esempio, invece, era programmata eccome: portava in sé il sentire “potrebbe accadere”. Aveva questa sorta di programma mentale radicato nella memoria cellulare, nei nuclei stessi delle cellule e nel codice genetico dentro i nuclei delle cellule. Se in quel momento si fosse trovata a procreare, avrebbe dunque investito inconsciamente il figlio di una missione, cercando di dargli tutte le soluzioni vincenti, tutto ciò che fosse stato di aiuto a lei, tutto ciò che fosse stato importante per lei. Una delle soluzioni vincenti, una delle cose importanti per lei, sarebbe stata d’essere sempre pronta a far da madre agli altri, a occuparsi degli altri; questa ce l’avrebbe avuta nei neuroni, nei geni.

Procreando, la signora avrebbe allora trasmesso questo stesso programma, o per via genetica o attraverso l’educazione, oppure da cervello a cervello… E magari il futuro bambino si sarebbe chiamato Cristiano, Cristina, Cristoforo… insomma, un nome che potesse renderlo simile al Cristo per occuparsi degli altri, per dimenticare se stesso. Magari sarebbe diventato infermiere, terapeuta, assistente sociale, ma in ogni caso quel bambino o bambina sarebbe stato… un “seno vivente”. Professionalmente o fisicamente, egli avrebbe incarnato un’inconscia e leale fedeltà a quel programma di sopravvivenza. È così che si incontrano persone, uomini o donne, con un petto sviluppato, molto sensibili alle disgrazie del mondo senza un’apparente ragione. Se si indaga fra i loro antenati, si scopre che, a un dato momento, quel programma si è installato.

Mi ricordo di un’altra paziente a cui era stato annunciato che suo figlio era autistico. Quella stessa sera, da entrambe le mammelle incominciò a sgorgare il latte, e sei volte al giorno cambiava fazzoletto per cercare di asciugarlo. Le era bastata la diagnosi: non aveva neppure bisogno di una storia precedente. Certe volte lo shock è talmente forte che, immediatamente, mette in atto il programma biologico. Riassunto della catena biologica che provoca la malattia L’evento esterno “Y” viene percepito dai cinque sensi: immediatamente ciò richiama la memoria inconscia di un altro evento che ha un punto in comune con “Y”, e si manifestano le credenze o convinzioni, che provocano il “sentire”. Il “sentire” viene trasformato in una codifica biologica nel cervello, che lo “incasella” in base a una serie definita di “caselle” corrispondenti alla nostra realtà biologica.

Insomma, alla fin fine il tutto sfocia nel corpo, che esprime un programma di adattamento. Nel caso di un dramma particolarmente intenso, il programma biologico potrà essere trasmesso attraverso i gameti (ovuli, spermatozoi), e il bambino sarà lealmente e inconsciamente fedele a questa codifica attraverso le proprie malattie, il nome, il mestiere…. Le tre fasi della malattia Tutte le malattie hanno due fasi: la prima va dallo shock alla risoluzione dello shock, ed è la fase di stress; la seconda è la fase del recupero, sempre accompagnata da un generale rilassamento muscolare, fisico, psichico ed energetico, con sintomi di stanchezza o di infiammazione; la terza è la fase del ritorno alla salute.


Le tre fasi della malattia

I due esempi che seguono riguardano le patologie del seno.

Un bambino si trova lontano da sua madre, separato da lei; la mamma vive questa situazione come una mancanza, un vuoto, una separazione, e incomincia a scavare i dotti galattofori. In questo stadio non si vede niente, non vi sono sintomi, la donna non prova alcuna sensazione; lo scavo può continuare per mesi.
Nel giro di uno, dieci o vent’anni (poco importa, perché il seno non è un organo vitale) la donna trova la soluzione al suo conflitto, entra in fase di soluzione: risolto il conflitto, infatti, l’organo incomincia a ripararsi; si manifestano allora i sintomi di riparazione, soluzione, ristrutturazione sotto forma di una patologia che potrà durare alcune settimane.

Un’altra donna, invece, vive questo dramma: «I miei bambini sono in pericolo!» e immediatamente produce più latte; le viene così la mastosi, un adenoma al seno. Costruisce, insomma, dell’altro seno, del tessuto ghiandolare in più per produrre altro latte. Questa proliferazione sarà proporzionale al dramma del suo sentire; se è davvero molto drammatico, allora procederà più in fretta. Psiche, cervello e corpo procedono infatti di pari passo: sono una cosa sola.

Quando siamo in conflitto, tutta la nostra realtà biologica, che si tratti di psiche, cervello, corpo, meridiani energetici, polsi cinesi, macchie sull’iride eccetera, si trasforma contemporaneamente. Quando poi troviamo la soluzione, tutto questo trova una soluzione.

Un giorno un signore viene a consultarmi per un tumore al retto. Perde sangue dall’ano dal mese di febbraio. Gli chiedo che cos’è accaduto di positivo nel mese di febbraio: l’uomo è interdetto, non gli sembra logico. Ma se perde sangue, vuol dire che c’è una grossa infiammazione, la quale è la soluzione a qualcosa: l’uomo si trova, cioè, nella seconda fase.

L’uomo ha già rintracciato il dramma, lo shock accaduto un anno prima. È il secondo di tre fratelli: ne ha dunque uno più vecchio e uno più giovane. Ha inoltre avuto cinque figli, e il suo secondogenito (secondogenito come lui: è quello con cui va più d’accordo) porta a casa per la prima volta la fidanzata. Durante il pranzo in famiglia, la ragazza non smette di lanciare frecciate al fidanzato, di fargli osservazioni umilianti: lui, il padre, vive questo come uno shock, ma non può dire niente perché quella ragazza è stata scelta dal figlio a cui lui vuole molto bene e di cui rispetta le scelte. Quando ne parla con me, però, dice: «Santo cielo, è stata dura», scuotendo le mani dall’alto in basso; allora gli chiedo: «Che cosa dicono le sue mani?».
«Beh, avrei voluto espellerla; quel suo modo di comportarsi a casa mia era un cesso». L’uomo mi parla con… il retto. Il suo sentire nel momento del dramma, è stato che qualcuno gli stava facendo un torto schifoso, a casa sua, nel suo territorio, e lui aveva una gran voglia di evacuare quella schifezza, però non poteva farlo, era bloccato. Poi, alla fine di gennaio, il figlio gli telefona e gli dice: «È finita; mi ha stufato, non la vedrai più». Il ragazzo non sapeva quale dramma era stato per suo padre, che naturalmente fu alquanto soddisfatto della rottura del fidanzamento. Il giorno seguente, l’uomo incominciò a perdere sangue. Infatti, in quel preciso momento, il suo conflitto da “porcata” si stava risolvendo, e lui, non dovendo più gestirsi qualcosa di schifoso, di marcio, era entrato nella seconda fase, la fase di riparazione o soluzione.
La storia, però, non finisce qui. L’uomo si reca da diversi medici, che fanno un ottimo lavoro all’interno del loro sistema di convinzioni mediche. Un medico sostiene che i suoi sintomi sono gravi, che bisogna fare questo e quest’altro… Ed ecco che il nostro amico si ritrova con un nuovo shock. Adesso ha paura di morire. Si tratta di uno shock nuovo, completamente indipendente dal primo.

La paura di morire si codifica nei polmoni, la paura della malattia nei gangli del collo, e così via. Il tempo di comparsa dei sintomi è molto variabile, a seconda del sentire; il processo inizia in quel preciso istante, ma poi, perché si esprima, ci vuole un certo tempo. Se il conflitto interessa la pelle, il sintomo appare rapidamente, perché la pelle è immediatamente visibile; se si tratta invece di una decalcificazione a livello osseo, ci vorranno dei mesi, per rendersene conto. Il tempo che ci vuole dipende dall’organo, e dunque dal sentire.

Passeggeri a bordo di un’auto guidata dall’inconscio
Una donna viene da me e mi dice: «Voglio avere dei figli». In quel momento, è come un passeggero che vorrebbe andare a destra, verso la foresta della fertilità, ma l’auto la conduce a sinistra, nel deserto della sterilità. Le spiego che effettivamente al volante c’è il suo inconscio, il quale conserva una memoria-messaggio: la sua nonna è morta di parto. Dunque, sul piano inconscio, per lei essere incinta equivale a un pericolo mortale. In base al sistema di logica che lo regge, l’inconscio ha sempre ragione: sterza verso la vita, che, in questo caso, equivale a non restare incinta. Non appena la signora lo comprende, può incominciare a deprogrammare: sapendo con certezza che quello era il problema della nonna, e che ci sono tante altre donne che sopravvivono al parto, potrà avere dei figli.

Dunque si tratta di diventare consapevoli di chi è al volante: quando faccio questo e quest’altro, quando produco un sintomo, un’attività, chi pilota la mia vita? E perché?

Una signora andava un’ora in palestra quotidianamente. Un giorno, mentre faceva esercizio per i muscoli, si rese conto che quella era una riparazione: suo padre l’aveva sempre sminuita, dicendole: «Come sei bruttina, così magra come un chiodo…»
Di quelle parole se n’era dimenticata, ma dentro di lei la faccenda era presente. Se ne rese conto a metà esercizio: «È per lui che faccio tutto questo! È per lui che mi complico la vita!» Mollò gli attrezzi, andò a farsi una doccia e non mise mai più piede in palestra. Si era accorta che tutto quel suo farsi i muscoli altro non era che una riparazione, e che era questo a pilotare la sua “auto”. E sul sedile del passeggero non c’era nessuno che avesse davvero voglia di farsi i muscoli…

Ci si può continuare a fare i muscoli con una motivazione diversa, ovviamente; ma se l’unica parte interessata ai pesi è quella, se quella è l’unica parte interessata alla sterilità e così via, allora non vi è più alcuna ragione di continuare!

Il mormorio elettrochimico delle cellule…
L’interesse e la specificità della biodecodifica delle malattie sta nel poter recuperare il senso biologico all’interno dell’emozione, e mai dell’intelletto. Se prendiamo la cosa solo dal punto di vista concettuale la troveremo noiosa o magari anche divertente, ma quando si tratta della nostra storia personale non si è più nel campo concettuale: si entra nel campo emozionale.
L’emozione è il canto delle cellule, il loro mormorio, la calda luce elettrochimica, la realtà soggettiva dei nuclei cellulari. L’emozione è una cellula che parla di sé, che fa capolino come un animaletto selvatico, un monaco pudico, un artista nudo che racconta senza veli la soddisfazione o la frustrazione che prova.

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  • informazioni sull'Autore: Christian Fleche
    Christian Flèche, psico-bioterapeuta, un Master in PNL e in Linguaggio metaforico, è un caposcuola nel campo della Decodifica biologica delle malattie, un’autorità indiscussa la cui scuola si appresta a farsi conoscere anche in Italia.
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