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Maurizio Barracano
Simbologia del Tappeto
Magnanelli
Pag. 167 Formato: 17 x 24 cm. Anno: 2003 ISBN: 978-88-8156-107-0
€. 21.50
Il tappeto è più di un complemento di arredo; è espressione di culture e tradizioni assai diverse. Separando da terra, esso è luogo puro, porta del cielo, mondo di simbolicità. Quest'opera studia il tappeto come manifestazione di un universo simbolico e sacro: utilizzabile su più livelli, serve da introduzione alla lettura del tappeto e alla sua più piena comprensione. Un indice iconologico riporta più di cento simboli, mentre il testo, voce per voce, li analizza alla luce dei principali libri sacri medio ed estremo-orientali e delle vestigia sciamaniche.
Estratto dal libro:
Il mondo occidentale è abituato a leggere i simboli in maniera analitica; volenti o nolenti si debbono fare i conti con duemilacinquecento anni di un pensiero tutto volto alla filosofia che percorre cime o abissi di una impostazione cognitiva a forti tinte razionalistiche.
Eppure, è molto probabilmente nel non-scritto di Pitagora o di Platone, di Proclo, Plutarco, Plotino o di altri ancora, che si celano i più «orientali» approcci al simbolo. Già la stessa parola simbolo, nata in mondi e situazioni in nuce definibili occidentali, la dice lunga sul corso che si deve percorrere per avvicinare un linguaggio immediatamente sacro, come quello del mondo in cui si realizzò il tappeto.
C'è una frase di John Eskenazi che rappresenta una felice intuizione al riguardo: «Egli [scil. l'artista tradizionale] cerca di raggiungere l'essenza spirituale del suo modello e poi da ciò crea l'immagine»(1) . La vera questione si pone tra questi due momenti: il raggiungimento, sub specie interioritatis, dell'essenza spirituale del modello, e la creazione dell'immagine conseguente. Inteso che un'immagine è, etimologicamente, la specie della cosa che viene percepita con la mente ed elaborata col pensiero, ciò che chiamiamo simbolo è l'apparenza (lat. species) di una cosa, non già la sua essenza, tant'è che è la mente personale, organo misurante e quantitativo, a percepirla.
Parimenti è il pensiero, l'organo ponderante, pesatore (lat. pondus, «peso»), a tradurla in un linguaggio comprensibile.
Allo stesso modo, quella che definiremo l'essenza spirituale di un dato oggetto è l'archetipo, l'idea prima e seminale (ratio, arabo asl, «radice») da cui trae la sua ragion d'essere un simbolo.
L'atto cognitivo di un simbolo può essere di due tipi, che diremo orientale e occidentale non tanto con riferimento a un fatto geografico, bensì alludendo ad approcci e mentalità tra loro eterogenee(2) e, per molti riguardi, opposte. Questi due approcci sono l'intima matrice di due mondi mentali.
Il primo è quello che afferma la preponderanza se non l'unicità della vita fisica e storica, vedendo l'uomo esclusivamente come lavoratore-consumatore; l'altro afferma un'autentica spiritualità consistente nel distacco da ogni illusione causata dalla brama d'esistenza per giungere alla conoscenza di se stessi che è, simultaneamente, comunione con l'Ineffabile.
La mentalità occidentale fa «cultura» perché vuole, non sempre inconsapevolmente, esorcizzare il sacro. Ciò che irromperebbe nell'ignoranza ontologica viene culturalizzato e, con ciò stesso, messo fuori dall'intimo dell'anima.
Il procedimento di esorcizzazione parte da un convincimento artefatto: il sacro «conosciuto» è lì, si vede, si spiega e se ne parla; che bisogno c'è di viverlo, se mai si possa e debba viverlo?
La salvezza automatica, in forza della sola appartenenza a un credo religioso, è stata la panacea subito sopravvenuta.
Dall'altra parte c'è il mondo orientale (e che si è protratto, nei princìpi, dall'antichità fino al nostro Medioevo). Come hanno osservato moltissimi autori, da Guénon a Evola, da Coomaraswamy fino a Burckhardt e Shuon, per ricordare alcuni tra i maggiori, l'orientalità è prima di tutto un modo d'essere e di porsi. è altra cosa sia da certo malinteso platonismo, sia dalla pretesa umanità dell'umanesimo; quanto caratterizza questa mentalità è la ricerca della libertà più che della giustizia, che casomai ne conseguirà. L'uomo «orientale» è colui che si volge all'origine, che cerca le cause intime di se stesso e dell'universo e che conforma tutto il vivere a questa sua ricerca. è l'uomo sinceramente tradizionale.
Rimane sempre e comunque fermo il «fac sapias et liber eris», ma questo sapere che darà libertà è concepito in modo particolarmente alto dall'uomo spirituale. L'uomo tradizionale cerca un sapere non tanto culturale o filosofico quanto essenziale, pratico, per giungere alla libertà spirituale, non fisica o psicologica. Queste ultime «libertà», fisica e psicologica, per quel tipo d'uomo sono, anzi, vere e proprie prigioni.
Nelle religioni e nelle filosofie autentiche l'«orientale» cerca il modo per autosuperarsi, cerca, si sarebbe tentati di dire, delle tecniche di risveglio interiore.
È il patrimonio «occidentale», inghiottito a viva forza, che rende spaesati di fronte a quel mondo «orientale». Si è quanto meno disarmati perché l'abitudine a ridurre tutto a cultura ci ha resi dimentichi di quello che il simbolo ri-vela, cioè nasconde sotto nuovi sembianti.
Non è solo al simbolo, infatti, che ci si deve riferire quando si voglia intimamente capire il significato, il senso pieno di certe arti. Sono un altro mondo, un altro modo di percepire e di percepirsi che con il filosofare, per quanto superiore, ha ben poco da dividere, per non dire nulla.
Quando si parla di ierofanie e di cratofanie (3) a questo si allude; manifestazioni del sacro e della potenza, gli allegoremi che incontriamo avvicinando un'opera d'arte possono essere più che simboli, riuscendo a diventare potenti.
Il simbolo, allora, sfuma. Esso è pur sempre una convenzione umana, e il relativo non può contenere l'assoluto.
Il simbolo è una indicazione, un labile segno di qualcosa che c'è già stato e che ancora c'è, perché è fuori dal tempo storico, assorto e superiore, in un illo tempore e in un continuo spaziale qualitativamente disomogeneo a quello del normale vivere.
I due mondi, occidentale e orientale, convivono, si sovrappongono a scapito di quello orientale, ma mai si uniscono a causa della supponenza che l'Occidente ha sempre avuto verso l'Oriente. Questo in qualunque ottava s'intendano i termini «occidentale» e «orientale».
Il mondo occidentale, fisicizzato, intriso di smania di possesso e fondamentalmente prigioniero della paura, ha avuto la meglio solo in apparenza su quello orientale perché la sicurezza che dà l'ignoranza, che vuol ridurre tutto a sé e che nega persino l'esistenza di ciò che non è capace di capire, lascia molti spazi, molte porte aperte, a quanto continua pervicacemente a definire irrazionale.
Sacro è quell'altro mondo dove le spiegazioni, e l'ansia che ne accompagna la necessità, lasciano spazio alle esperienze indicibili che hanno tramandato forse l'unica traccia di sé nel simbolo.
«Raggiungere l'esperienza spirituale» di un modello non è certo un vano esercizio per poi compiere un'opera d'arte.
È semmai vero il contrario: «arte» in senso generale era detta, nel mondo arcaico, ogni capacità di produrre oggetti «al servizio della Sapienza, di quella Sapienza che rende attiva la conoscenza a livello spirituale, anzi, divino, così come fa la scienza per le cose terrene di ogni genere. Servizio qui significa una dedizione della personalità che è volontaria, perfettamente consapevole, e che comporta il sacrificio di sé [...] così come avviene e dovrebbe avvenire nel vero culto divino, [...] rendere intelligibile la verità primordiale, rendere udibile l'inaudito, pronunciare la parola primordiale, illustrare l'immagine primordiale, questo è il compito dell'arte, altrimenti non è arte» (4).
L'opera d'arte era, insomma, una conseguenza di conoscenze sia trascendenti che fisiche o, meglio ancora, della connessione fra tre mondi: divino, angelico e umano.
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