Quella dell’Olivetti è la storia di un’eccellenza italiana. Nata a inizio Novecento dal genio irrequieto e anticonformista di Camillo, l’azienda è cresciuta all’insegna dell’innovazione, della cura al design e dell’attenzione alle esigenze dei dipendenti. L’impegno umano e professionale del fondatore e di suo figlio Adriano, decisi a coniugare progresso tecnologico e ideale socialista, non si è arrestato nemmeno nel Ventennio fascista; anzi, negli anni seguenti l’azienda ha sviluppato prodotti così belli e funzionali – la Lexikon 80, la Divisumma 24, la Lettera 22 – da essere inseriti nella collezione del MoMA di New York ed entrare nell’immaginario comune quali perfette incarnazioni del made in Italy.Portata ai vertici del settore proprio da Adriano, anche grazie al contributo di suo figlio Roberto e di ingegneri talentuosi come Mario Tchou, la Olivetti è arrivata a far concorrenza ai colossi americani dell’elettronica sviluppando il primo modello di desktop computer: il Programma 101, adottato persino dalla NASA.
Poi, il declino. La morte di Adriano nel 1960, quella di Tchou nel 1961 e la chiusura dell’avanguardistico laboratorio di elettronica hanno sempre alimentato sospetti. Ma che cosa accadde davvero il 27 febbraio 1960 sul treno diretto in Svizzera, e l’anno successivo sul cavalcavia della Milano-Torino che conduceva al casello di Santhià?
Meryle Secrest, aggiunge un tassello fondamentale per la comprensione dei fatti: il ruolo giocato dagli Stati Uniti e in particolare dalla CIA, anche dietro pressione dell'IBM. Nel pieno della guerra fredda, il progressista Olivetti era considerato una minaccia e la sua azienda andva fermata con ogni mezzo.