«A Dio non dispiace il Tarocchino» scriveva il gesuita Antonio Golini nel Settecento in una delle sue Lettere Familiari. Asserzione che trovava compiacenti tutti i Bolognesi che a quel gioco dedicavano buona parte del loro tempo, vantandosi di essere stata la loro città ad avere dato i natali a quelle famose carte, amate sempre e dovunque nell’intera Europa. D’altronde, i documenti parlavano chiaro: si trattava di un gioco che gli storici del tempo asserivano essere stato «inventato dalla studiosa mente dei Bolognesi» in epoca antichissima. Poi, fino a non molti anni fa, a Palazzo Felicini-Fibbia, in via Galliera, troneggiava in una stanza un dipinto seicentesco di notevoli dimensioni che ritraeva in maniera fantasiosa il Principe Francesco Antelminelli Castracani Fibbia, discendente del celebre condottiero delle armi ghibelline Castruccio Castracani. Scritte sotto il quadro lo identificavano come inventore dei tarocchini la cui creazione avvenne circa centocinquant’anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1419 oppure nel 1410 data la grafia incerta. Per alcuni storici il personaggio era frutto di invenzione, affermazione dettata senza alcuna accurata indagine negli archivi bolognesi.