Economia buddista "Retti mezzi di sussistenza" è uno dei requisiti del Nobile Ottuplice Sentiero buddista. È chiaro, pertanto, che deve esserci qualcosa come un'Economia buddista. I paesi buddisti, da parte loro, hanno spesso dichiarato di voler rimanere fedeli al proprio retaggio. Così il birmano: "Il Nuovo Birmano non vede conflitti tra i valori religiosi e il progresso economico. La salute spirituale ed il benessere materiale non sono nemici: sono alleati naturali". Oppure: "Possiamo unire con successo i valori spirituali e religiosi del nostro patrimonio con i benefici della tecnologia moderna". E ancora: "Noi Birmani abbiamo il sacro dovere di conformare i nostri sogni e le nostre azioni alla nostra fede. Dovremo sempre fare così".
Ciononostante, tali paesi ritengono di poter modellare i propri piani di sviluppo secondo i principi dell'economia moderna rivolgendosi ad economisti moderni provenienti dalle cosìdette economie avanzate per consigli su come formulare le politiche da perseguire e come costruire il gran disegno dello sviluppo, il Piano quinquennale o come lo si voglia chiamare. Nessuno sembra pensare che uno stile di vita buddista richiede un'economia buddista, proprio come la vita materialista moderna ha prodotto l'economia moderna.
Gli economisti stessi, come gran parte degli specialisti, generalmente soffrono di una specie di cecità metafisica, ritenendo che la propria sia una scienza di assolute e invariabili verità, senza alcuna presunzione. Alcuni arrivano ad affermare che le leggi economiche non sono soggette alla "metafisica" o ai "valori" quanto la legge gravitazionale. Tuttavia, non è la metodologia che ci interessa. Al contrario, prendiamo alcuni fondamentali e vediamo come appaiono agli occhi di un economista moderno e di un economista buddista.
C'è accordo generale per quanto riguarda il fatto che la principale fonte di ricchezza sia il lavoro. Ora, l'economista moderno è stato educato a pensare che la "fatica" o il lavoro sia nulla più di un male necessario. Dal punto di vista del datore di lavoro, è semplicemente una voce di costo, da ridurre al minimo se non eliminata del tutto, diciamo tramite l'automazione. Dal punto di vista del lavoratore, è una "disutilità", lavorare significa fare un sacrificio a scapito del proprio tempo libero e confort e lo stipendio è solo una specie di compensazione per questo sacrificio. Pertanto, l'ideale dal punto di vista del datore di lavoro è produrre senza dipendenti e l'ideale dal punto di vista del lavoratore è percepire un reddito senza un'occupazione.
Le conseguenze di questi due atteggiamenti, tanto nella teoria quanto nella pratica, hanno ovviamente una vastissima portata. Se l'ideale, per quanto riguarda il lavoro è eliminarlo, ogni metodo che "riduce il carico di lavoro" è una buona cosa. Il metodo più potente, una sorta di automazione, è la cosìdetta "divisione del lavoro" e l'esempio classico è rappresentato dalla fabbrica di spilli celebrata da Adam Smith nel suo "La ricchezza delle nazioni". Qui non è questione di semplice specializzazione, che l'umanità pratica da tempo immemorabile, ma si tratta di dividere ogni processo completo di produzione in parti piccolissime, così che il prodotto finale possa essere ottenuto a grande velocità senza che nessuno debba contribuire con nulla più di un gesto degli arti totalmente insignificante e, nella maggior parte dei casi, non specializzato.
Il punto di vista buddista vede perlomeno una tripla funzione del lavoro: dare all'uomo una possibilità di utilizzare e sviluppare le proprie facoltà. Permettergli di superare il suo egocentrismo unendosi ad altre persone verso un obiettivo comune. Produrre i beni e i servizi necessari ad una esistenza appropriata. Ancora, le conseguenze che scaturiscono da questa prospettiva sono infinite. Organizzare il lavoro in modo tale che per il lavoratore diventi privo di significato, noioso, stordente o esasperante sarebbe quasi criminale. Indicherebbe, infatti, una preoccupazione maggiore per le cose piuttosto che per le persone, una dannosa mancanza di compassione ed un livello alienante di attaccamento al lato più primitivo di questa esistenza terrena. Ugualmente, lo sforzo costante verso l'ozio come alternativa al lavoro verrebbe considerato come un fraintendimento totale di una delle verità di base dell'esistenza umana, e cioè che il lavoro e l'ozio sono parti complementari dello stesso processo vitale e non possono essere disgiunte senza distruggere la gioia del lavoro e la felicità dell'ozio.
Dal punto di vista buddista, esistono pertanto due tipi di automazione che devono essere chiaramente distinti: uno che migliora le capacità e la forza dell'uomo e un altro che trasforma il lavoro dell'uomo in una servitù meccanica, lasciando l'uomo in una posizione di dover "servire il servo". Come distinguere l'uno dall'altro? "L'artigiano stesso", afferma Ananda Coomaraswamy, una persona capace di parlare dell'Occidente Moderno così come dell'Antico Oriente, "lo stesso artigiano può, se messo nella posizione, tracciare la sottile distinzione tra macchina e strumento. Il telaio per tappeti è uno strumento, un congegno per tenere i fili di catena tesi affinché il tappeto possa essere ordito dalle dita dell'artigiano. Il telaio meccanico, invece, è una macchina e la sua importanza come distruttrice di cultura sta nel fatto che svolge essenzialmente la parte umana del lavoro". È chiaro, pertanto, che l'economia buddista è profondamente diversa dall'economia del materialismo moderno, dal momento che l'economista buddista vede l'essenza della civiltà non nella moltiplicazione dei desideri ma nella purificazione dell'indole umana. Il carattere, allo stesso tempo, viene plasmato principalmente dal lavoro di una persona. E il lavoro, se svolto correttamente in condizioni di dignità e libertà umana, benedice sia chi lo svolge sia il prodotto finale. Il filosofo ed economista indiano J. C. Kumarappa riassume la questione nel modo seguente: "Se la natura del lavoro è apprezzata e applicata nel modo corretto, si troverà nello stesso rapporto con le facoltà superiori come il cibo lo è con il corpo fisico. Nutre e anima l'uomo superiore e lo esorta a produrre il meglio nelle sue possibilità. Indirizza la volontà dell'uomo sulla via corretta e disciplina l'animale che è in lui in canali progressivi. Fornisce uno sfondo eccellente sul quale l'uomo può proiettare la propria scala di valori e sviluppare la propria personalità".
Se un uomo non ha alcuna possibilità di trovare un lavoro, egli si trova in una posizione disperata, non perché gli manca un reddito ma perché manca questo fattore di lavoro disciplinato, insostituibile, che dà nutrimento e vita. Un economista moderno potrebbe impegnarsi in calcoli altamente sofisticati sul fatto se la piena occupazione "paga" o se potrebbe essere più "economico" gestire un'economia poco sotto la piena occupazione in modo da garantire una maggiore mobilità del lavoro, una più costante stabilità dei salari, e così via. Il suo criterio fondamentale di successo è semplicemente la quantità di beni prodotti in un dato periodo di tempo. "Se la necessità marginale dei beni è bassa", afferma Galbraith ne La società opulenta, "allora lo stesso vale per la necessità di assumere l'ultimo uomo o l'ultimo milione di uomini della forza lavoro". E ancora: "Se…possiamo permetterci un po' di disoccupazione nell'interesse della stabilità – una proposta, incidentalmente, di antecedenti impeccabilmente conservatori – allora possiamo permetterci di dare ai disoccupati i beni che consentono loro di sostenere il proprio standard di vita abituale".
Da un punto di vista buddista, questo significa ribaltare la verità, significa dare più considerazione alle cose rispetto alle persone e più attenzione al consumo rispetto all'attività creativa. Significa spostare l'enfasi dal lavoratore al prodotto del lavoro, cioè dall'umano al sub-umano, significa arrendersi alle forze del male. L'inizio della pianificazione economica buddista sarebbe una pianificazione mirata alla piena occupazione il cui scopo principale è quello di dare un'occupazione a tutti coloro che necessitano di un lavoro "esterno": non sarebbe né la massimizzazione dell'occupazione né la massimizzazione della produzione. Le donne, in linea generale, non necessitano di un lavoro "esterno", e l'occupazione su larga scala delle donne in uffici e fabbriche sarebbe considerato un segno di grave fallimento economico. In modo particolare, lasciare che le madri di giovani figli lavorino in fabbriche mentre i bambini crescono senza attenzioni sarebbe così antieconomico agli occhi di un economista buddista quanto l'arruolamento di un operaio specializzato come soldato lo sarebbe agli occhi di un economista moderno.
Mentre il materialista è principalmente interessato alle merci, il buddista è principalmente interessato alla liberazione. Ma il buddismo è "La Via di Mezzo" e quindi in nessun modo antagonista al benessere fisico. Non è il benessere che si erge sulla via della liberazione ma l'attaccamento al benessere, non è il godimento delle cose piacevoli ma il desiderarle. Il punto fondamentale dell'economia buddista, quindi, è la semplicità e la non-violenza. Dal punto di vista di un economista, la meraviglia dello stile di vita buddista è la razionalità totale del suo schema, mezzi incredibilmente ridotti portano a risultati straordinariamente soddisfacenti.
Per l'economista moderno questo è molto difficile da comprendere. Egli è, infatti, abituato a misurare lo "standard di vita" dalla quantità di consumo annuale, con la costante convinzione che un uomo che consuma di più sta "meglio" di un uomo che consuma di meno. Un economista buddista vedrebbe questo approccio come eccessivamente irrazionale: poiché il consumo è semplicemente un mezzo per raggiungere il benessere, l'obiettivo sarebbe quello di ottenere il massimo del benessere con il minimo di consumo. Pertanto, se lo scopo dei vestiti è quello di assicurare un certo confort termico e un aspetto gradevole, l'obiettivo è di raggiungere tale scopo con il minor sforzo possibile, cioè con la minor distruzione di vestiti annuale possibile e con l'aiuto di progetti che coinvolgano la minor quantità di lavoro possibile. Minore è il lavoro e maggiore è il tempo e la forza per l'attività creativa. Sarebbe quindi decisamente antieconomico, ad esempio, impegnarsi in complicati lavori di sartoria, come accade nel moderno Occidente, quando un effetto molto più gradevole può essere ottenuto grazie alla sapiente lavorazione di stoffa grezza. Sarebbe l'apice della follia produrre un materiale che si deteriori velocemente e l'apice della barbarie produrre qualcosa di brutto, trasandato o mediocre. Quanto detto per i vestiti può essere ugualmente applicato a tutte le altre necessità umane. Il possesso e il consumo di beni è il mezzo per un fine e l'economia buddista è lo studio sistematico di come raggiungere determinati scopi con il minimo dei mezzi.
L'economia moderna, d'altra parte, considera il consumo come unico fine e scopo di tutte le attività economiche, usando i fattori di produzione (terra, lavoro e capitale) come mezzi. Il primo, in breve, tenta di massimizzare le soddisfazioni umane tramite uno schema consumistico ottimale, mentre il secondo tenta di massimizzare il consumo tramite uno schema produttivo ottimale. È facile vedere che lo sforzo necessario a sostenere uno stile di vite che cerca di raggiungere lo schema ottimale di consumo è probabilmente molto minore dello sforzo teso al maggior consumo possibile. Non c'è da meravigliarsi, quindi, se la pressione e lo stress della vita è più ridotto, diciamo, in Birmania rispetto agli Stati Uniti, malgrado il fatto che la quantità di macchinari che fanno risparmiare lavoro usati nel primo paese sono solo una piccolissima frazione di quelli utilizzati nel secondo.
Semplicità e non-violenza sono ovviamente strettamente collegate. Lo schema ottimale di consumo, che produce un elevato grado di soddisfazione umana tramite un tasso di consumo relativamente ridotto, consente alle persone di vivere senza grande pressione e stress e di soddisfare il primo ordine dell'insegnamento buddista: "Cessa di fare il male; cerca di fare il bene". Dal momento che le risorse fisiche sono limitate ovunque, le persone che soddisfano le proprie necessità per mezzo di un uso ridotto di queste risorse sono ovviamente meno a rischio di trovarsi l'uno alla gola dell'altro rispetto a chi dipende da un alto tasso di utilizzo di tali risorse. Allo stesso modo, le persone che vivono in comunità locali largamente autosufficienti hanno meno probabilità di essere coinvolte in violenze su larga scala rispetto a coloro la cui esistenza dipende da sistemi commerciali globali.
Dal punto di vista dell'economia buddista, quindi, la produzione da risorse locali per i bisogni locali è il modo più razionale di vita economica, mentre la dipendenza dalle importazioni da lontano e il conseguente bisogno di produrre per le esportazioni verso popolazioni sconosciute e distanti è di gran lunga antieconomico e giustificabile solo in casi eccezionali e in scala ridotta. Proprio come l'economista moderno ammetterebbe che un alto tasso di consumo dei servizi di trasporto tra la casa di una persona e il suo posto di lavoro è una sfortuna e non un alto standard di vita, così l'economista buddista ammetterebbe che la soddisfazione dei desideri umani da fonti lontane piuttosto che da fonti vicine è un fallimento più che un successo. Il primo potrebbe prendere le statistiche che mostrano un aumento del numero di tonnellate/miglia pro capite della popolazione che utilizza il sistema dei trasporti nazionale come prova della crescita economica, mentre per il secondo, l'economista buddista, le stesse statistiche indicherebbero un deterioramento sicuramente sconsigliabile nello schema di consumo.
Un'altra differenza notevole tra l'economia moderna e quella buddista è rappresentata dall'utilizzo delle risorse naturali. Bertrand de Juvenal, l'eminente filosofo politico francese, ha descritto l'"uomo occidentale" in termini che potrebbero essere presi come una descrizione appropriata dell'economista moderno: "Per lui niente ha un costo, tranne lo sforzo umano; non sembra importargli di quanta materia minerale spreca e, peggio, di quanta materia vivente distrugge. Non sembra rendersi conto che l'intera vita umana è una parte che dipende da un ecosistema composto da molte forme di vita diverse. Mentre il mondo è governato da città dove gli uomini sono tagliati fuori da qualsiasi altra forma di vita che non sia quella umana, la sensazione di appartenere ad un ecosistema non viene rivitalizzata. Ne consegue un trattamento brutale e sconsiderato delle cose da cui principalmente dipendiamo, come l'acqua e gli alberi".
L'insegnamento del Buddha, d'altro canto, raccomanda un atteggiamento non-violento e riverente nei confronti non solo di tutti gli esseri senzienti ma anche, e con grande enfasi, verso gli alberi. Ogni seguace del Buddha dovrebbe piantare un albero di tanto in tanto e curarlo finché non si è sviluppato con sicurezza e l'economista buddista può dimostrare senza difficoltà che il rispetto universale di questa regola consentirebbe un alto tasso di vero sviluppo economico indipendentemente dagli aiuti esteri. Gran parte del decadimento economico del sud-est asiatico (come di molte altre parti del mondo) è senza dubbio dovuta ad una sventata e colpevole negligenza degli alberi.
L'economia moderna non distingue tra materie rinnovabili e non rinnovabili, proprio perché il suo metodo è quello di comparare e quantificare tutto tramite il prezzo in moneta. Pertanto, se si prendono diversi combustibili alternativi, quali il carbone, il petrolio, il legno o l'energia idrica, l'unica differenza che l'economia moderna riconosce è il costo relativo per unità equivalente. Quello più basso è automaticamente quello da preferire, poiché fare il contrario sarebbe irrazionale e "antieconomico". Da un punto di vista buddista, naturalmente, questo ragionamento non si applica e non è possibile ignorare la differenza essenziale tra fonti non rinnovabili quali il carbone e il petrolio da una parte e i combustibili rinnovabili come il legno e l'energia idrica dall'altra. I beni non rinnovabili devono essere utilizzati solo se indispensabili e, in questo caso, solo con la più grande attenzione e con la meticolosa preoccupazione della loro conservazione. Utilizzarli sventatamente o in maniera non corretta è un atto di violenza, e mentre la non-violenza completa potrebbe non essere raggiungibile su questa terra, per l'uomo sussiste tuttavia il dovere ineluttabile di perseguire l'ideale della non-violenza in tutto ciò che fa.
Proprio come un economista europeo moderno non considererebbe un grande risultato economico la vendita a prezzi vantaggiosi di tutti i tesori d'arte europei all'America, così l'economista buddista vedrebbe un popolo che basa la sua vita economica su fonti non rinnovabili come parassitario, sul capitale invece che sul reddito. Un tale stile di vita non potrebbe essere permanente e potrebbe quindi essere giustificato solo come espediente puramente temporaneo. Dal momento che le risorse di combustibili non rinnovabili (carbone, petrolio e gas naturale) sono distribuite in modo eccessivamente non uniforme su tutto il pianeta e sono indubbiamente limitate in quantità, è chiaro che il loro sfruttamento ad un tasso sempre crescente è un atto di violenza contro la natura che deve portare quasi inevitabilmente alla violenza tra gli uomini.
Questo fatto solamente potrebbe essere cibo per la mente anche per quelle popolazioni di paesi buddisti cui non importa nulla dei valori religiosi e spirituali del proprio patrimonio e che desiderano ardentemente abbracciare il materialismo dell'economia moderna nel modo più veloce possibile. Prima di liquidare l'economia buddista come niente di più di un sogno nostalgico, potrebbero voler valutare se il percorso dello sviluppo economico tratteggiato dall'economia moderna li conduce nel punto in cui vorrebbero veramente essere. Verso la fine del suo coraggioso libro The Challenge of Man's Future (La sfida del futuro dell'uomo), Harrison Brown, professore al California Institute of Technology, dà la seguente valutazione:
"Così vediamo che proprio come la società industriale è fondamentalmente instabile e soggetta al ritorno alla vita rurale, così, al suo interno, le condizioni che offrono la libertà individuale sono instabili nella loro capacità di evitare le condizioni che impongono l'organizzazione rigida e il controllo totalitario. Infatti, se esaminiamo tutte le prevedibili difficoltà che minacciano la sopravvivenza della civiltà industriale, è difficile vedere come il raggiungimento della stabilità e il mantenimento della libertà individuale possano essere compatibili".
Anche se ciò venisse liquidato come una prospettiva a lungo termine, e a lungo termine, come disse Keynes, siamo tutti morti, si impone la questione immediata se la "modernizzazione", come praticata attualmente senza rispetto dei valori religiosi e spirituali, stia veramente producendo risultati piacevoli. Per quanto concerne le masse, i risultati sembrano essere disastrosi: il collasso dell'economia rurale, una marea crescente di disoccupati in città e in campagna e la crescita di un proletariato urbano senza nutrimento né per il corpo né per lo spirito.
È alla luce dell'esperienza immediata e delle prospettive a lungo termine che lo studio dell'economia buddista potrebbe essere raccomandato a chi ritiene che la crescita economica sia più importante dei valori religiosi o spirituali. Perché non è questione di scegliere tra "crescita moderna" e "stagnazione tradizionale". È questione di trovare la giusta via verso lo sviluppo, la Via di Mezzo tra la sventatezza materialista e l'immobilità tradizionalista, in breve, di trovare i "Retti Mezzi di Sussistenza".
Che ciò possa essere fatto non v'è alcun dubbio. Tuttavia richiede ben più della cieca imitazione dello stile di vita materialista delle cosìdette nazioni avanzate. Richiede, soprattutto, lo sviluppo consapevole e sistematico di una Via di Mezzo della tecnologia, come l'ho chiamata, una tecnologia più produttiva e potente della tecnologia decaduta dell'antico Oriente, ma allo stesso tempo non-violenta e immensamente più economica e semplice della tecnologia risparmiatrice di lavoro dell'Occidente moderno.
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