IL SE' E IL SUPREMO
Prefazione di Satish Kumar
Il nome di Vinoba Bhave iniziò a riecheggiare in tutta l’India sin dalla morte del Mahatma Gandhi. Il suo nome esemplifica le qualità che hanno fatto di lui un grande maestro. Vinu è un nome di Ganesh, il dio della saggezza dalla testa d’elefante. Ba, che significa Madre, fu aggiunto al nome in virtù delle qualità materne e femminili che il bambino manifestava. Bhave indica la provenienza braminica della famiglia.
Il Mahatma Gandhi introdusse il concetto di nonviolenza nella lotta per l’indipendenza politica dell’India; analogamente, Vinoba Bhave usò la tecnica della compassione per perseguire alcune riforme sociali ed economiche. Per un periodo di diciotto anni, Vinoba percorse gli angoli più remoti del vasto sub-continente indiano. Ogni singolo villaggio, ogni città, ogni collina, ogni fiume e tutte le valli che attraversava, vibravano del suo amore e della sua risata.
La missione dichiarata da Vinoba era stabilire il regno della compassione abolendo l’oppressione. Il suo metodo raccomandava il contatto con Madre Terra, fu per questa ragione che egli viaggiò sempre a piedi. I piedi di Vinoba toccarono parti dell’India che nessun altro mezzo di trasporto avrebbe potuto raggiungere. Il movimento di Vinoba mirava a rendere possibile la condivisione dei frutti e dell’abbondanza di Madre Terra, da parte di tutti gli uomini e di tutte le donne del pianeta. In quale famiglia soltanto alcuni figli ottengono le cure amorevoli della propria madre, mentre altri ne sono totalmente privati? Così s’interrogava Vinoba. La risposta era ovvia. Il lavoro nella terra e con la terra, in mezzo alle piante, gli alberi e gli animali, è un’attività che eleva l’uomo, tanto fisicamente che materialmente, economicamente e spiritualmente. Per quale ragione poche persone soltanto sono proprietarie della terra, mentre altre non ne possiedono affatto? La terra appartiene a Dio, la terra appartiene a tutti o a nessuno. Noi non abbiamo creato la terra, per quale motivo dovremmo affermare di possederla?
Aria, acqua, luce del sole, foreste, colline, fiumi e terra sono parti della nostra eredità spirituale. Nessun gruppo, e nessun individuo, può avere il diritto di esserne padrone, di possederla, di sciuparla, inquinarla o distruggerla. Noi possiamo ricevere i frutti della terra considerandoli doni di Dio e restituire a Dio ciò di cui non abbiamo bisogno. Vinoba bussò a ogni porta, persuadendo i proprietari terrieri, i capitalisti e i comunisti, a stabilire una nuova relazione con la terra e con le sue genti. Egli conquistò i cuori e le menti di milioni di persone. Queste rinunciavano ad alcune parti delle loro proprietà, offrendole ai poveri e ai contadini. Vinoba raccolse in donazione cinque milioni di acri (1 acro equivale a 4.046 mq., n.d.T.) di terra che distribuì ai poveri. Se sei ricco, dona, se sei povero, dona. Nessuno è ‘nullatenente’. Alcuni possiedono terreni, altri proprietà, altri ancora intelletto e manodopera fisica. Tutti serbano amore e affetto nel proprio cuore. Tutti hanno qualcosa da dare, quindi, diamo e doniamo. Tramite la campagna dell’offerta di donazioni, Vinoba ispirò a donare terreno, lavoro manuale, denaro, strumenti e conoscenza. Quella di Vinoba fu un’economia dell’immaginazione. Solo in rari casi, qualcuno rifiutò d’incontrare il mendicante divino. La pratica di Vinoba non fu mai di porsi come antagonista nei confronti dei proprietari terrieri, piuttosto di assisterli nell’agire correttamente. Lo spirito del dono non può essere sviluppato in un’atmosfera di resistenza e di confronto. La resistenza riduce, nel cuore, la possibilità di cambiamento ed è in sé una forma di violenza. La resistenza non crea un’atmosfera di comprensione empatica, piuttosto, crea una sorta d’insicurezza che, proprio nel momento in cui dovrebbe osservare in modo imparziale, porta l’uomo a difendere se stesso.
Vinoba dice: “Consideriamo l’esempio della casa. Tu vuoi entrare in una casa circondata da alte mura. Ti affanni nel tentativo di penetrare queste mura, ma non ne sei capace. A quel punto hai la testa rotta. Se riesci a trovare la porticina, allora puoi entrare, ma solo se trovi la porta. Così, quando incontro un proprietario, vedo i suoi difetti e forse il suo ego è solido come un muro. Tuttavia, questa persona ha anche una piccola porta che è la bontà del cuore. Quando sei pronto a trovare la porta, tu superi l’ego personale e penetri la vita della persona che hai di fronte. Non preoccuparti dei difetti, cerca di trovare la porta. Io sono alla ricerca di questa porticina nel cuore di ogni capitalista e di ogni proprietario terriero. Talvolta, non riesco a trovarla, ma la colpa è solo mia. Il mio errore è che continuo a sbattere la testa contro le sue lacune”.
Vinoba non aveva ambizioni personali. La sua vita era dedita alla ricerca della conoscenza di Dio. Egli vedeva i problemi dell’India non come problemi politici o economici, piuttosto come problemi spirituali. Vinoba aveva una fede immensa, egli confidava che se i proprietari terrieri non si fossero convertiti quel giorno stesso, si sarebbero convertiti il giorno seguente.
Vinoba era un santo, un erudito, un saggio e un servitore di Dio, tutti riuniti in una sola persona. Grazie a queste qualità, Mahatma Gandhi lo riconobbe come primo Satyagrahi (che partecipa alla campagna politica per la verità) in grado di porre fine alla dominazione britannica. Presentando Vinoba al popolo dell’India, il Mahatma scrisse:
“Chi è Vinoba Bhave e per quale motivo è stato scelto per guidare questa disobbedienza civile individuale? È un ex studente non-laureato, ha lasciato l’università dopo il mio ritorno in India nel 1916. È un erudito in lingua sanscrita. Vinoba si è unito all’Ashram fin dalla nascita dell’ashram stesso. È stato uno dei suoi membri fondatori… Per potersi qualificare meglio, si è preso un anno di riflessione e ha approfondito gli studi di sanscrito. Poi, alla stessa ora in cui, un anno prima, aveva lasciato l’Ashram, vi è tornato senza preavviso. Vinoba ha partecipato a ogni piccola attività dell’Ashram, dalla pulizia delle strade alla cucina. Benché dotato di una meravigliosa memoria, e naturalmente portato allo studio, ha dedicato gran parte del tempo alla pratica della filatura, in cui si è specializzato come pochi. Egli crede che la filatura universale possa costituire l’attività centrale per eliminare la povertà dai villaggi dell’India. Essendo un insegnante nato, il suo aiuto è stato prezioso per lo sviluppo dell’educazione tramite l’artigianato. Vinoba ha scritto un libro di testo usando come esempio la filatura. In questo è riuscito a spiegare ai suoi detrattori che la filatura è l’arte manuale par excellence. Quanto a perfezione nella filatura, Vinoba non ha probabilmente rivali in tutta l’India. Egli ha totalmente rifiutato il concetto d’intoccabilità. Egli crede nell’unità comunitaria ed è animato dalla mia stessa passione. Desiderando conoscere le menti migliori dell’Islam, Vinoba ha dedicato un anno intero allo studio del Corano nella versione originale. Per far questo ha imparato anche la lingua araba. Vinoba ha un esercito di discepoli e di collaboratori pronti ad affrontare qualsiasi sacrificio. Egli ha curato l’educazione di un giovane uomo che, in seguito, si è dedicato al servizio dei lebbrosi. Pur essendo a digiuno di medicina, questo giovane ha appreso con singolare devozione il metodo di cura dei lebbrosi e sta ora gestendo numerose cliniche.
Centinaia di persone devono la loro guarigione al suo operato. Vinoba crede nella necessità dell’indipendenza politica dell’India. Tuttavia crede anche che la vera indipendenza sia impossibile in assenza di un programma costruttivo. Egli crede che il filatoio a mano sia il più appropriato simbolo della nonviolenza. Vinoba non è mai stato al centro della ribalta della scena politica. Come molti altri lavoratori, egli crede che lavorare in silenzio e con operosità, mantenendo la disobbedienza civile nel retroscena, sia molto più efficace che non partecipare alla già sovraffollata scena politica. Egli crede profondamente che la resistenza nonviolenta sia impossibile senza credere, e senza praticare, il lavoro costruttivo”. Non fu questa la sola circostanza in cui Gandhi parlò o scrisse a proposito di Vinoba. Nel giugno del 1916, Gandhi comunicò al padre di Vinoba: “Tuo figlio è con me. Egli ha acquisito, nonostante la tenera età, un profondo spirito ascetico e una spiritualità che, personalmente, solo dopo molti anni di lavoro paziente io sono riuscito a raggiungere”. A Vinoba stesso, poi Gandhi scrisse: “Non so quale parola usare, per descriverti. Il tuo amore e il tuo carattere mi rendono sgomento”. Un’altra volta Gandhi descrisse le qualità di Vinoba: “Egli è una delle perle dell’Ashram. Queste persone non arrivano, come le altre, per essere benedette dall’Ashram, ma per benedirlo, non per ricevere, ma per dare!” Nel 1932 Vinoba scrisse una lettera al Mahatma Gandhi descrivendo i dettagli del proprio lavoro nei villaggi e chiedendo un consiglio. Come risposta, Gandhi scrisse: “Se proprio dobbiamo dire qualcosa, basti dire che la dura prova cui ti sei sottoposto è capace di costruire un ponte tra cielo e terra!” Poco tempo dopo, Gandhi scrisse nuovamente a Vinoba: “Il tuo amore e la tua fede colmano i miei occhi con lacrime di gioia. Forse le merito, forse no, certamente recano a te un bene infinito. Tu sarai uno strumento di grande servizio”.
Il Mahatma aveva assolutamente ragione. Quando Gandhi fu assassinato, nel 1948, Vinoba ne fu considerato il naturale successore. Il popolo lo vide come il prosecutore dell’opera di Gandhi, dedito all’elevazione spirituale e sociale tramite il retto pensare e una vita semplice.
Vinoba si dedicò a un nuovo esperimento di liberazione dall’economia monetaria. Egli cominciò a lavorare nei campi per molte ore ogni giorno, zappando il terreno roccioso e rendendolo adatto alla coltivazione. In compagnia dei suoi collaboratori, egli fece il voto solenne di mangiare soltanto quanto era coltivabile nel terreno dell’Ashram e di indossare soltanto abiti filati e tessuti dalla comunità stessa. Tutte le donazioni, eccetto quelle sotto forma di lavoro, erano strettamente proibite. Vinoba diede inizio agli scavi di un pozzo. Centinaia di volontari e di studenti, provenienti dai villaggi adiacenti, parteciparono al progetto. Ogni giorno, al tramonto, i lavoratori si riunivano per pregare in comunità. Vinoba, con il corpo ricoperto di terriccio, era solito condurre le preghiere mentre, in piedi, intonava ad alta voce i canti devozionali, pareva vederlo danzare, colmo di gioia ed euforia. Vivere senza denaro, e accettare donazioni, era una pratica che Vinoba prescriveva a molti lavoratori volontari e attivisti sociali.
Quando partii per la marcia mondiale per la pace, Vinoba mi consigliò di andare senza denaro. Egli disse: “Il denaro rende l’uomo arrogante. Dopo aver percorso a piedi trenta chilometri in un solo giorno, sarai stanco, esausto e affamato. Cercherai di trovare un ristorante in cui mangiare e un albergo in cui dormire. Il giorno dopo sarai di nuovo in piedi. Non avrai bisogno dell’aiuto di nessuno. Ma se non avrai denaro, sarai costretto a trovare una persona gentile e ospitale, in grado di offrirti un letto e un pezzo di pane. Dovrai imparare a essere umile e ad accettare tutte le persone così come sono, senza scegliere, senza giudicare e senza discriminare. Tu, con i soldi, pensi di poter comprare tutto ciò che vuoi, pensi di poter scegliere chi desideri incontrare e chi desideri evitare. I promotori volontari della pace tra i popoli non possono permettersi di provare simpatie e antipatie. Sii libero dall’economia basata sul denaro. Scegli di lavorare per la pace, con l’amore nel cuore, la fiducia nel prossimo e la fede in Dio”. Fui molto riconoscente di aver seguito il suo consiglio.
Vinoba apprese la sua prima lezione di fede, di generosità e di spiritualità, da sua madre Rukmini, una devota hindu. Rukmini conosceva a memoria centinaia d’inni religiosi e devozionali e li cantava sovente. Un giorno, un mendicante si presentò alla casa di Rukmini per chiedere l’elemosina. Rukmini gli offrì una generosa quantità di riso. Vinoba rimase leggermente sorpreso e domandò alla madre: “Non stai forse incoraggiando l’oziosità? Il tipo sembra giovane e forte. Non può forse lavorare per mantenersi?” La madre di Vinoba non fu affatto colpita dalla sua domanda razionale. Ella rispose: “Chi siamo noi per distinguere tra chi merita e chi non merita?” Rukmini chiedeva a Vinoba di abbandonare ogni paura, di essere sempre generoso con tutti gli esseri e di servire il prossimo. Questo seme di profonda spiritualità, accudito e nutrito da Rukmini, crebbe vigoroso e, all’età di undici anni, Vinoba fece un voto di celibato a vita per potersi dedicare completamente alla realizzazione del sé e al servizio del prossimo. Anche i suoi due fratelli fecero un voto di celibato in età molto giovane.
Vinoba non amava la scuola e desiderava sempre uscire dall’aula. Egli era solito far notare ai suoi amici che le scuole e le università moderne erano, in realtà, grandi fabbriche per addestrare ‘i loro più obbedienti servitori’. Un giorno, mentre sedeva accanto alla madre, in cucina, Vinoba prese un rotolo di documenti e lo gettò nel fuoco. “Cosa stai facendo?”, lo interrogò la madre, sorpresa. “Brucio i miei certificati scolastici”. “Un giorno potresti averne bisogno”.
“No”, disse Vinoba, con enfasi. “Da questo momento non mi serviranno più”. Tutti i certificati furono presto inceneriti.
Vinoba comunicò ai suoi compagni che stava pensando di abbandonare gli studi universitari. Un paio di giorni prima degli esami, che si sarebbero svolti a Bombay, Vinoba salì su un treno diretto a Bombay con un amico. Egli scese a metà del percorso, dopo aver consegnato all’amico una lettera che avrebbe dovuto recapitare solo dopo il termine degli esami. La lettera era indirizzata a suo padre: “Sono certo che avrai fiducia in me, ovunque andrò, sappi che non mi comporterò in modo immorale”.
Vinoba si recò nella città santa di Benares, l’importante centro per le lingue sanscrite e per l’apprendimento spirituale. Seduto sulle rive del Gange, Vinoba studiava, contemplava, meditava e filosofeggiava con i sadhu e gli eruditi. Infine, Vinoba sentì che questi santi uomini erano emarginati dal mondo reale. Nel dualismo tra Dio e il mondo, il significato di completezza era andato perduto, ma Dio può essere realizzato soltanto attraverso il mondo. Fu allora che Vinoba scoprì il Mahatma Gandhi. Era questo il Gandhi che lottava per liberare l’India dalle grinfie del Raj britannico, il Gandhi che conduceva una campagna per liberare gli intoccabili dal dominio esercitato dalle caste, che lavorava per ripristinare la vita rurale e che viveva in una comunità fondata sulla preghiera e sulla purificazione. Vinoba si recò all’Ashram del Mahatma Gandhi, subito, entrambi provarono una profonda attrazione reciproca. Vinoba aveva finalmente trovato il maestro e mentore che cercava. Da quel momento Vinoba si dedicò alla ricerca di Dio e a servire la gente, in special modo i poveri dell’India.
Il desiderio di Vinoba di servire i poveri prese forma nel villaggio di Pochampalli, dove gli intoccabili iniziavano a contrapporsi ai proprietari terrieri. A piedi, Vinoba si recò in quel luogo per vedere di persona cosa stesse accadendo. Gli harijan (intoccabili) lo circondarono e lo implorarono di aiutarli. Essi spiegarono che non avevano impiego e non avevano terreno. Se solo avessero avuto il terreno, avrebbero potuto mantenersi. Vinoba non sapeva come agire. Chiese che tutte le famiglie di harijan si riunissero all’incontro pubblico che si sarebbe tenuto la sera stessa. Tutte le quaranta famiglie di lavoratori nullatenenti, di poveri e di affamati, nonché i proprietari terrieri stessi, parteciparono all’incontro. Dopo le preghiere, e dopo la pratica della filatura, uno degli harijan si alzò e parlò con tono appassionato. “Noi serviremo Madre Terra e ne riceveremo i frutti, l’unica soluzione alla nostra povertà è la terra. Per favore, dateci un po’ di terra”. Vinoba volle sapere quale fosse il quantitativo di terra di cui avevano bisogno. Essi ne parlarono tra loro e infine dissero: “Siamo quaranta famiglie, due acri per famiglia saranno adeguati; complessivamente abbiamo bisogno di ottanta acri”. Vinoba non aveva una risposta. Con calma, egli disse che avrebbe chiesto la donazione di terra al governo.
Improvvisamente, gli sovvenne che qualcuno, tra gli abitanti del villaggio, avrebbe potuto donare un appezzamento di terra ai poveri harijan. Egli sollevò gli occhi, sorrise con dolcezza alla folla riunita e, senza aspettarsi veramente una risposta, disse con aria casuale: “Fratelli, vi è forse qualcuno tra voi che può aiutare gli amici harijan? Essi sono pronti a lavorare alacremente per guadagnarsi da vivere”.
Uno dei proprietari locali, Ramachandra Reddy, si alzò, guardò Vinoba, e disse: “Fu volontà di mio padre che la metà dei suoi duecento acri di terra andasse in donazione a un individuo meritevole. Per tutti questi anni, non ho saputo cosa farne. Oggi mi si offre un’opportunità dorata. Per favore, accetta la mia donazione di cento acri. Sarò infinitamente grato per questo atto di grazia”. Né Vinoba, né i membri del suo partito, riuscivano a credere alle parole dell’uomo, sembrava troppo bello per essere vero. Ramachandra Reddy restò, in piedi, ad attendere la risposta di Vinoba. Vinoba era sopraffatto. Era un miracolo. Gli harijan avevano chiesto soltanto ottanta acri, ed ecco che il donatore ne aveva spontaneamente offerti cento. Vinoba guardò ancora gli harijan.
Questi, pur avendo udito l’offerta di cento acri, si attennero alla cifra originale di ottanta. Essi reiterarono che avrebbero servito Madre Terra con tutto il loro cuore. Non vi era la minima traccia di avidità o di tentazione in loro. Asciugate le lacrime, Vinoba dichiarò: “Sono arrivato a mani vuote, e domattina proseguirò il mio viaggio, sempre a mani vuote. Benefattore e beneficiato sono entrambi tra noi. Lasciamo che si scambino la terra in nostra presenza. Il donatore dovrebbe aiutare gli amici harijan offrendo anche una somma di denaro e gli attrezzi necessari alla coltivazione in forma cooperativa della terra”.
Ramachandra Reddy, con un gentile inchino a Vinoba, accettò la responsabilità. Felici e soddisfatti, gli harijan toccarono i suoi piedi. Vinoba nominò sul posto un comitato di cinque persone, che consistevano nel donatore, due rappresentanti degli harijan e due esperti fattori del villaggio. Vinoba dichiarò: “L’uomo non agisce unicamente grazie alla forza del proprio pensiero. Si cela sempre una mano Divina dietro le nobili azioni. Io sono un uomo di fede e lavoro in nome di Dio. Se la Provvidenza lo desidera, io camminerò di villaggio in villaggio chiedendo donazioni di terra per i poveri!” Fu così che nacque il grande Movimento per la Donazione della Terra. Vivere da poveri, amare i poveri e vedere Dio nel povero non significa accettare la dominazione e lo sfruttamento del povero. Vinoba divenne un impavido difensore del povero. Molti poveri non hanno nulla di cui vivere perché alcuni di noi hanno troppo. Noi non sappiamo quando dire “abbastanza” e la nostra avidità è come una palude senza fondo. Vinoba chiedeva alla gente non di avere pietà per il povero, ma di vivere come il povero. Spingendo i poveri nella trappola della miseria, e della fame, facciamo solo male a noi stessi. I poveri sono membri della famiglia umana, sono parti di noi. Se hai cinque figli, considera il povero il tuo sesto figlio e distribuisci la sesta parte dei tuoi averi a chi non possiede nulla. Questo genere di convinzione aveva un tale potere da spingere alcuni primi ministri, e presidenti, a far visita a Vinoba. Essi lo trovavano accampato nelle capanne, e nelle casette di bambù che incontrava durante le lunghe marce che lo vedevano percorrere tutto il Paese. Vinoba evitava sempre le grandi città. Dove il povero non era ben accolto, Vinoba non andava, si trattasse di un tempio o di un palazzo. Era un tipico segno della spiritualità indiana il fatto che, un uomo come Vinoba, fosse in grado di suscitare rispetto tanto nei politici quanto nell’individuo comune.
All’età di settantacinque anni, Vinoba decise di rinunciare a ogni forma di azione. Egli entrò nel quarto stadio dell’esistenza. *
* Secondo la tradizione hindu, la vita umana è suddivisa in quattro stadi. Il primo è uno stadio di preparazione e di apprendimento, dove non è prevista la partecipazione alle questioni mondane. Il secondo stadio consiste nello sperimentare le responsabilità dell’uomo sposato in qualità di oste, di padre di famiglia che lavora per il pane quotidiano e di procacciatore di circostanze mondane. Il terzo stadio consiste nel trasferire le responsabilità, relative alla famiglia e al lavoro, ai propri figli, per essere liberi di dedicarsi al servizio del prossimo, al sostegno dei poveri, al compimento delle arti, della musica, della poesia e dei pellegrinaggi. Lo stadio finale consiste nel rinunciare a tutto per abbandonarsi a Dio, operare per la realizzazione del sé e prepararsi per la vita futura. Vinoba saltò il secondo stadio e seguì meticolosamente tutto il resto.
Allora Vinoba smise di viaggiare, fece voto di silenzio e trascorse tutto il tempo in preghiera, in meditazione e in contemplazione. All’età di ottantasette anni, sentendosi debole e malato, egli vide avvicinarsi lentamente il Dio della Morte. I medici cercarono di proteggerlo dalla dipartita finale, Vinoba, tuttavia, non temeva la morte. Se la vita era una celebrazione, la morte era la sua culminazione. Vinoba decise di accogliere e di abbracciare la morte e rinunciò a qualsiasi forma di cibo, bevanda e medicina. Nel momento in cui diede inizio all’importante digiuno, tutti i suoi amici e seguaci seppero che la grande dipartita era imminente. Migliaia di devoti, giunti da tutta l’India, si riunirono intorno a lui. Otto giorni dopo, in pace totale, Vinoba intraprese il suo viaggio verso il cielo. Satish Kumar
Il Sè e il Supremo
Vinoba Bhave
edizioni FioriGialli
euro 14,50